Gli inferi nella mitologia mesopotamica

Gli inferi nella mitologia mesopotamica

Il concetto dell’oltretomba nel vicino oriente antico

La vita oltre la morte è sempre stato un argomento che ha fortemente interessato l’uomo. Praticamente nasce con lui. Nell’antica Mesopotamia, ad esempio, gli inferi avevano una connotazione definita, e ne troviamo prova nei poemi più antichi.

Più volte nel corso dei millenni l’uomo ha affrontato il suo timore per la morte e quanto ci sarebbe dopo, attraverso la catabasi, ovvero l’immaginazione e i racconti relativi ai viaggi negli inferi.

Nel poema sumerico “Gilgamesh e l’oltretomba” abbiamo la narrazione delle vicende del compagno di Gilgamesh, Enkidu (letteralmente “creazione di Enki“, in cuneiforme 𒂗𒆠𒆕), che nel regno dei morti resta intrappolato.

Il mondo dei defunti, secondo la tradizione mesopotamica, è tenebroso e popolato di spettri. Questi acquistavano una posizione più o meno favorevole a seconda delle offerte che i loro discendenti recavano ai loro sepolcri.

Descrizioni ancora più dettagliate possiamo trovarle sia nella versione sumerica che in quella accadica della discesa agli inferi della dea Inana (o Ishtar). I morti sarebbero locati in un ambiente polveroso e tetro. Si ciberebbero di argilla e sarebbero costretti a dissetarsi con il fango. La medesima sorte viene descritta dai canti della divinità sumerica Dumuzi (Tammuz, arabo تمّوز = Tammūz; ebraico תמוז = Temwtz, accadico ỾỾ = Duʾzu o Dūzu).

I legami che vengono addotti tra il mondo dell’oltretomba e quello del cielo sono stati anch’essi molto frequenti nel corso dei secoli. Si tratta di associazioni abbastanza logica che vengono evocate tra l’universo che sta sopra e quello che sta sotto la terra.

La credenza relativa alla frequenza dell’oltretomba da parte del dio del Sole nel mondo mesopotamico antico, è molto interessante. Egli risiederebbe nel mondo dei morti dal tramonto fino all’aurora. Questa sua permanenza sarebbe determinante per la formazione del destino, i cui segni apparirebbero nei segni che il barû ( che i Romani chiamavano aruspice, un sacerdote appositamente delegato) poteva leggere nelle viscere dell’agnello.

Fonti:

Il Ghilgamesh, Claudio Saporelli, Simonelli Editore

La religione dell’Antica Mesopotamia, Paolo Mander, Carocci Editore

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